Pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenta alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in ambito di responsabilità medica.

Nel testo che segue l’avvocato Soavi prende in esame un pronunciamento della Corte Suprema, che ha ancora evidenziato come sia fondamentale individuare il nesso causale tra la condotta del medico e l’evento, secondo una ricostruzione del fatto puntuale e rigorosa.

La Corte di Cassazione con la sentenza del 2 ottobre 2024 n. 45399 si è pronunciata su una questione di fondamentale interesse in tema di accertamento del nesso causale nella responsabilità medica. Ove la relazione medico legale espletata nel giudizio a carico del personale medico non individui in modo chiaro e preciso la causa della malattia che ha portato al decesso della giovane paziente avvenuto per shoc settico da colite pseudomembranosa, risulta impossibile identificare ex ante la condotta alternativa utile a dimostrare che l’evento lesivo non si sarebbe verificato.

Nel caso di specie tra gli imputati condannati per omicidio colposo in primo grado vi era il medico curante al quale era stato contestato di “aver omesso, a fronte della sintomatologia a carico del tratto intestinale evidenziata dalla paziente, di procedere all'esecuzione di un esame obiettivo volto a verificare i segni patologici dei vari organi ed apparati della paziente e di fornire indicazioni per l'espletamento di indagini cliniche di laboratorio necessarie per l'accertamento dell'entità dell'infezione gastroenterica e dello stato di disidratazione”; imputata altresì l’infermiera del 118, “per avere omesso, a fronte dello stato di ipertermia, tachicardia e diarrea - in atto da diversi giorni - della paziente, di procedere al trasferimento immediato della stessa in ospedale”; altra infermiera preposta al triage del pronto soccorso  per aver “sottovalutato la gravità delle condizioni della persona offesa, inquadrandola come codice verde”; il medico di guardia in servizio al pronto soccorso per avere “omesso di visitare con l'urgenza del caso la paziente e di non avere rilevato la gravità delle sue condizioni, nonostante la denunciata sintomatologia dolorosa che la affliggeva e nonostante risultasse, in base agli esami ematochimici, uno stato di grave insufficienza renale ed epatica ed un rilevante aumento dei globuli bianchi, delle piastrine e della proteina C reattiva e l'esame ecografia dell'addome evidenziasse un versamento endoaddominale omettendo pertanto di procedere a tempestiva diagnosi e di segnalare l'assoluta urgenza dell'intervento chirurgico”.

La Corte d’appello ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di omicidio colposo contestato, tuttavia confermando le statuizioni civili sul risarcimento dal danno. Avverso tale sentenza gli imputati hanno pertanto proposto distinti ricorsi per cassazione con i quali tra i vari motivi, sono stati evidenziati vizi nella ricostruzione del nesso di causalità tra le condotte contestate e l’evento letale. La Cassazione con la sentenza in esame, ricorda alcuni principi cardine che si sono affermati in giurisprudenza in materia di accertamento della causalità. Tra questi, innanzitutto si sottolinea come un comportamento umano possa essere considerato causa di un evento solo se, senza di esso, l'evento non si sarebbe verificato e, al contrario, non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l'evento si sarebbe verificato egualmente. In particolare, la Suprema Corte facendo espresso riferimento alla responsabilità medica, evidenzia che è “indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l'evento lesivo sarebbe stato evitato o differito” I Giudici della Corte di Cassazione affermano altresì che il nesso causale può essere rilevato quando, alla stregua del “giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.

Sulla base di tale corollario, l’organo giudicante deve comunque sempre verificare la validità della regola di esperienza o legge scientifica utilizzata nel caso concreto e non è consentito alcun automatismo sull’accertamento del nesso causale come individuato dall’ipotesi accusatoria. Pertanto, “l'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio”. Tale principio è stato espresso anche dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, poi ripreso anche dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 18/09/2014, Thyssenkrupp.

Secondo la Corte di Cassazione nel caso di specie il giudice di primo grado non ha correttamente applicato tali principi sopra enunciati e ha pertanto errato nella ricostruzione delle condotte tenute dal personale medico-sanitario coinvolto nella cura della vittima. In particolare, viene contestata l’adesione dell’organo giudicante alle affermazioni dei periti in quanto non erano riuscite neanche a individuare le cause di insorgenza e i tempi di evoluzione della patologia definita “fulminante” e che aveva determinato la morte della paziente. Quest’ultima era affetta da colite pseudomembranosa fulminante con segni di megacolon tossico. “Gli stessi giudici di primo grado osservano che, a detta dei periti, tale patologia si palesa raramente nei giovani (la persona offesa, al momento del decesso, aveva 26 anni) e nel caso, essa era esordita in forma subacuta e di difficile diagnosi e gestione”. Viene altresì riconosciuto che dalle risultanze processuali “non erano state chiarite con certezza le cause determinanti l'esordio e l'evoluzione di tale patologia, che solitamente (ma non sempre) si sviluppa per infezione batterica da "Clostridrium Difficile", agente patogeno a sua volta difficile (come indicato dallo stesso nome) da diagnosticare (almeno all'epoca dei fatti). Tuttavia, i giudicanti, affidandosi alla valutazione dei periti, affermano che non sarebbero decisive le circostanze di non aver trovato il Clostridium Diffìcile nei reperti istologici cui ricondurre in termini di certezza la colite pseudomembranosa né di non aver chiaramente inserito nel formulare tale diagnosi differenziale la ricerca dei Clostridium Difficile, ma l'omissione di ogni tipo di indagine indotta dalla constatazione dei sintomi manifestati dalla paziente con l'avvio di un percorso diagnostico che avrebbe consentito di individuare mediante successivi approfondimenti la causa della malattia, poi conclamata nella colite pseudomembranosa che ha portato la giovane alla morte".

In pratica, secondo la Cassazione, i giudici di primo e secondo grado che hanno ritenuto accertati i profili di colpevolezza in capo agli imputati, non hanno chiarito in che modo questi ultimi “avrebbero dovuto e potuto evitare l'evento o comunque non forniscono un giudizio di alta probabilità logica in ordine alla sicura idoneità salvifica della condotta doverosa omessa, limitandosi ad offrire generiche considerazioni in ordine alla necessità di "effettuare i dovuti approfondimenti", ovvero all'esigenza di affrontare "un percorso di approfondimento diagnostico vantaggioso".

Elisabetta Soavi

 

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