Pubblichiamo il terzo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenterà alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica. Nel testo che segue l’avvocato Soavi analizza una sentenza della Corte di Cassazione che riguarda la vicenda di tre medici accusati di omicidio colposo a seguito del decesso di un calciatore dopo un malore accusato in campo, ai quali veniva contestato il mancato utilizzo del defibrillatore.

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La Corte di Cassazione con sentenza n. 24372 del 9 aprile 2019 si è occupata di un noto caso legato al precoce decesso di un professionista. La tragedia si è compiuta nel corso dell’anno 2012 nel campo da calcio dello stadio di Pescara durante una partita del campionato di serie B. Al ventinovesimo minuto di gioco, a causa di un malore improvviso, un giocatore si è accasciato al suolo in stato di incoscienza e ne è seguito il decesso dichiarato al Pronto Soccorso dell’Ospedale, ove era stato trasportato d’urgenza.

Imputati del delitto di omicidio colposo in cooperazione colposa tra loro i due medici sociali della squadra e il medico responsabile dell’Unità Mobile di pronto soccorso presente allo stadio al momento dell’accaduto. La condanna dei tre operatori sanitari in primo grado per tale delitto è stata confermata anche in grado d’appello, in particolare i due medici sociali avevano omesso di utilizzare il defibrillatore automatico, pur essendo disponibile nel campo da gioco, o comunque non ne avevano sollecitato l’uso. Il medico del servizio del 118, presente anch’egli alla partita di calcio, si era recato verso il calciatore dopo circa due minuti da quando si era verificato il malore, anch’egli poi omettendo di utilizzare il defibrillatore. In pratica la Corte d’Appello affermava che “sulla base degli accertamenti autoptici e delle indicazioni del collegio peritale, la causa del decesso era da individuare in una fibrillazione ventricolare localizzata nel ventricolo sinistro… il defibrillatore esterno è un apparecchio in grado di erogare lo shock elettrico necessario in caso di fibrillazione ventricolare, efficace per il ripristino del normale ritmo cardiaco”.

Anche dal punto di vista della causalità tra condotta omessa ed evento morte, il Giudice di secondo grado ha concluso che in caso di utilizzo del defibrillatore dopo 27 secondi dal malore l’esito sarebbe stato favorevole, in considerazione della giovane età del calciatore, dell’esiguità dell’estensione cicatriziale riscontrata all’esame anatomopatologico e dell’assenza completa di coronaropatia. Tutti e tre i medici condannati in secondo grado hanno proposto ricorso per Cassazione. La Corte di Cassazione nella sua pronuncia ha affermato (come tra l’altro si legge nella motivazione della sentenza di appello) la correttezza della diagnosi operata nell’immediatezza dai due medici sociali; questi infatti, come risultato anche dagli accertamenti in sede peritale, hanno esattamente individuato la causa del collasso e di conseguenza le prime manovre di rianimazione, quali il massaggio cardiaco. In particolare, la Cassazione contesta il criterio logico argomentativo adottato dai Giudici di secondo grado in ordine all’accertamento del nesso causale tra le condotte degli imputati e l’evento morte nonché l’imputabilità a titolo di colpa del mancato utilizzo del defibrillatore.

Con riferimento a tale ultimo aspetto (la colpa), si è posto l’accento sulle raccomandazioni contenute nel manuale di rianimazione Basic Life Support secondo cui “in caso di perdita di conoscenza, il soccorritore prima di tutto verifica se vi sia attività respiratoria ed attività di circolo, attraverso la tecnica denominata G.A.S. (Guarda-Ascolta-Senti); stabiliscono che, sulla base delle prime risultanze diagnostiche, in presenza di arresto cardiocircolatorio, si proceda alla manovre di rianimazione cardiopolmonare e all’impegno del DAE, in assenza del battito”. La Cassazione ha puntualizzato come la Corte d’Appello ha errato nella ricostruzione dei fatti. Afferma che innanzitutto i due medici sociali hanno agito nell’immediatezza, effettuato una corretta diagnosi tanto che identificarono correttamente (secondo poi gli esiti degli accertamenti autoptici effettuati) l’origine del collasso, quindi hanno iniziato le prime manovre di rianimazione dell’atleta con massaggio cardiaco.

Seppur nella sentenza di secondo grado si sia evidenziato come il DAE doveva essere utilizzato per finalità diagnostica, in realtà la diagnosi è stata effettuata correttamente e nell’immediatezza per affrontare il collasso in atto. La condotta omissiva che è stata contestata nei due gradi di giudizio ai medici della squadra è legata al mancato utilizzo del defibrillatore in una condizione di arresto cardiocircolatorio. Si rende necessario un cenno ai profili della colpa quale criterio di imputazione soggettiva affinché si comprenda meglio quali sono gli elementi che devono essere accertati dall’organo giudicante, soprattutto per quanto concerne l’attività del medico. La responsabilità per colpa si basa, secondo la giurisprudenza ormai consolidata, sui seguenti elementi:

– mancanza di dolo (rappresentazione e volontà dell’evento lesivo);

– nesso di causalità materiale tra condotta ed evento;

– violazione di una norma cautelare (generica in caso di condotta negligente, imprudente o imperita ovvero specifica se ad essere violata è una norma di legge, regolamento o disciplina);

– prevedibilità dell’evento;

– concretizzazione del rischio: l’evento verificatosi deve appartenere al novero degli eventi che la norma cautelare mirava a prevenire;

– causalità della colpa (o evitabilità dell’evento che si dimostra con un ragionamento c.d. controfattuale): se fosse stata rispettata la norma cautelare l’evento non si sarebbe verificato (o vi sarebbero state comunque apprezzabili, significative, probabilità di scongiurarlo), quindi la colpa è esclusa se il c.d. comportamento alternativo lecito non avrebbe comunque evitato l’evento.

Nel caso di specie, dal punto di vista dell’accertamento della colpa in capo ai due medici sociali e a quello del 118 sopraggiunto, la Cassazione ha affermato che in entrambi i gradi di giudizio non è stata valutata la concreta esigibilità di una diversa condotta da parte dei sanitari; in particolare, non sono state considerate le condizioni in cui hanno agito i medici, in assenza quindi di un coordinamento tra loro e in una situazione di concitazione e urgenza.

Rileva la Cassazione che l’esigibilità della condotta diversa che doveva essere tenuta richiede l’accertamento anche dell’effettiva competenza in capo a ciascun operatore; come affermato dalla giurisprudenza costante, occorre verificare, sulla base delle qualità personali e delle mansioni svolte, se ciascun soggetto abbia le capacità di uniformarsi alle regole cautelari che vengono in considerazione. Inoltre, a dimostrazione della debole argomentazione in ordine all’accertamento della colpa in capo agli imputati, nel caso in questione è stato sottolineato come all’epoca dei fatti non era ancora stato adottato il Protocollo operativo volto a individuare la procedura di coordinamento e organizzazione di tutti gli operatori sanitari nell’attività di assistenza sanitaria a favore dei calciatori e della tifoseria durante le manifestazioni sportive.

Anche sotto il profilo della violazione di una lex artis, la Cassazione ha rilevato che l’iter probatorio dedotto a fondamento dell’accertamento della colpa per omesso utilizzo del defibrillatore non è stato corretto, quindi non sufficientemente provato. Le stesse raccomandazioni del manuale di utilizzo del dispositivo, come sopra riportato, prevedono le medesime manovre che sono state eseguite dai medici e che sono necessarie prima di avvalersi del DAE in assenza di battito cardiaco.

La Corte d’Appello ha negato altresì rilevanza alle dichiarazioni rese da un infermiere presente sul campo a fianco del calciatore al momento dell’accaduto, ma la Cassazione ha ritenuto l’argomentazione carente dal punto di vista probatorio. Si legge nella motivazione della sentenza in esame “la ritenuta costante mancanza di battito, sin dai primi minuti dal collasso, risulta in realtà logicamente incompatibile con il concreto sviluppo fenomenologico del malore occorso al calciatore (n.d.r.) posto che il collasso intervenne alle ore 15.29 e che la morte del calciatore venne dichiarata alle successive ore 16.44 dai medici dell’Ospedale. La sopravvivenza dell’atleta per oltre un’ora, dal momento della crisi, evidenzia che la Corte distrettuale ha omesso di confrontarsi con la possibilità di una presenza intermittente del battito cardiaco.”

La Corte di Cassazione, per quanto concerne il profilo dell’imputabilità a titolo di colpa nei confronti del personale medico intervenuto in soccorso dell’atleta, ha annullato la sentenza di secondo grado e rinviato alla Corte d’Appello compente per un nuovo giudizio sul punto. Quest’ultima dovrà pertanto attenersi ai principi affermati dalla Cassazione in materia di colpa, come sopra citati, ed effettuare una nuova valutazione dal punto di vista della prova per affermare o meno se sussiste un’effettiva colpevolezza in capo ai medici.

Infine si ritiene utile riprendere un altro argomento affrontato dalla sentenza in esame che riguarda il nesso causale tra la condotta omissiva ascritta agli imputati e l’evento.

La Cassazione ha contestato anche il metodo logico argomentativo utilizzato dai giudici della Corte d’appello per verificare se la morte del calciatore è causalmente riconducibile alla condotta omissiva imputata ai medici. La Corte d’Appello ha correttamente affermato che l’atleta era affetto da cardiomiopatia aritmogena, con interessamento prevalente del ventricolo sinistro e la causa del collasso cardiocircolatorio era da identificarsi in una fibrillazione ventricolare, insolitamente localizzata nel ventricolo sinistro; tuttavia, il prosieguo del ragionamento in ordine all’omesso utilizzo del defibrillatore non è stato ritenuto corretto dalla Cassazione.

In secondo grado, infatti, si è attribuita rilevanza causale all’uso dell’apparecchio e all’aumento delle probabilità di successo o comunque alla riduzione dei danni e alla possibilità di far acquisire ulteriore tempo ai sanitari per effettuare interventi mirati. La Cassazione ha rilevato che, in base alle risultanze dei periti, la scoperta della patologia di cui era affetto l’atleta e sconosciuta in precedenza meritava una più attenta disamina dal punto di vista del nesso causale, attraverso l’acquisizione di ulteriori informazioni tecnico-scientifiche; la motivazione della sentenza della Cassazione conclude nel senso che “la Corte distrettuale ha fatto riferimento alla teorica della perdita di chance, espressa dal richiamato indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico sulle possibilità di successo del comportamento alternativo”.

Argomentazioni quest’ultime che si pongono in netto contrasto con quanto affermato dall’orientamento consolidato della giurisprudenza, secondo cui il ragionamento di deduzione logica basato su generalizzazioni scientifiche non è sufficiente ma occorre anche quello di tipo induttivo elaborato attraverso la valutazione dello specifico quadro clinico che si presenta in concreto.

La Cassazione ha pertanto annullato, con rinvio alla Corte d’Appello competente, la sentenza di condanna anche dal punto di vista della causalità tra condotta contestata ed evento morte, non solo, quindi, per quanto riguarda l’elemento soggettivo della colpa. La Cassazione ha ritenuto carente dal punto di vista della prova del nesso causale la sussistenza di colpevolezza in capo ai medici sociali, affermando come non corretto il criterio adottato dalla Corte d’Appello per l’accertamento di causalità (oltre alla colpa) e quindi non provato il fatto di reato secondo il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”.

I giudici della Corte d’Appello competente, a cui la Cassazione ha rinviato per effettuare un nuovo giudizio, dovranno pertanto svolgere una nuova disamina del caso anche per quanto concerne la prova del nesso causale nel rispetto dei principi affermati dalla Cassazione.

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha affermato principi già consolidati in giurisprudenza per l’accertamento della colpevolezza in ordine al profilo della colpa e del nesso causale, senza ovviamente esprimere alcun giudizio o presa di posizione contraria all’utilizzo del defibrillatore in sé, quale strumento salva vita.

Elisabetta Soavi

CONTRIBUTI PRECEDENTI

- Medico di guardia e obbligo di intervento domiciliare

- Intervento chirurgico d’équipe e responsabilità penale dei singoli operatori