Pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenta alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica. Nel testo che segue l’avvocato Soavi si occupa di un pronunciamento della Corte Suprema che ha riguardato la condanna di due operatori sanitari per aver prescritto cure omeopatiche come terapia per il melanoma

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Con una recente e interessante sentenza (Cass. Pen. Sez. IV, sent. n. 5117/2022), la Corte di Cassazione si è espressa in merito ad un caso di responsabilità medica che ha visto la condanna di due operatori sanitari per aver prescritto cure omeopatiche come terapia per il melanoma. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno confermato la responsabilità penale di un omeopata e del medico curante di una paziente a cui era stato diagnosticato il 1 dicembre 2005 “un nevo discromico e plemorfo in regione scapolare sinistra”.

Secondo la ricostruzione degli organi giudicanti, alla vittima era stato consigliato di non sottoporsi ad un intervento di asportazione, indicandole una terapia ricavata dalla medicina omeopatica “Hahnemanniana”, priva di qualsiasi riconoscimento scientifico, reiterando, inoltre, gli stessi suggerimenti negli anni successivi, “anche dopo l’asportazione del suddetto nevo e la formulazione della diagnosi di melanoma maligno a cellule epitelimorfe, in questo modo facendo sì che alla paziente non venissero praticati interventi e terapie necessarie (tra cui exeresi o asportazione chirurgica del nevo ed asportazione dei linfonodi), non impedendone il decesso, avvenuto a seguito delle molteplici metastasi sviluppatesi dal melanoma”. In particolare, i Giudici hanno ritenuto l’omeopata, che non aveva in cura diretta la paziente, ma che stabilmente cooperava con il medico curante, anche lui omeopata, direttamente responsabile della fallimentare linea terapeutica scelta. Secondo la ricostruzione della Corte d’Appello, è risultato comprovato che il medico curante della paziente aveva seguito l’intero percorso terapeutico e suggerito il ricorso alla c.d. nuova medicina germanica di Hamer. Non solo, in capo all’altro medico omeopata è stata configurata una responsabilità poiché invitato dal collega ad un consulto dal quale era emersa la lesione della paziente e la diagnosi della natura degenerativa cancerogena.

Il caso in questione è stato poi sottoposto all’esame della Corte di Cassazione che ha confermato ogni rilievo argomentato dai Giudici di secondo grado sulla responsabilità di entrambi i medici. In particolare, viene ribadito con fermezza che la condotta del medico omeopata, interpellata dal collega per il consulto “fu di piena adesione al fallimentare piano terapeutico” elaborato da quest’ultimo di “rimandare l’intervento fino a che il tumore non fosse uscito naturalmente dal corpo della paziente, adesione che è connotata da una manifesta attitudine agevolatrice della dissennata condotta del medico curante”.

Nella motivazione della sentenza della Corte di Cassazione viene altresì evidenziato come rappresenti un dato incontroverso che il medico omeopata, seppur non avesse in cura diretta la paziente, non si sia attivato a tutela della salute e della vita del paziente, “tenendo una condotta professionale caratterizzata da grave imprudenza e imperizia”. In particolare, i Giudici della Cassazione si sono soffermati sull’accertamento della responsabilità del medico omeopata intervenuto in collaborazione con l’altro. Sul punto, rileva il tema del nesso causale tra la condotta del medico e l’evento mortale. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dalla Cassazione, anche se all’epoca del consulto non vi erano segni di metastasi e la stadiazione del melanoma è intervenuta solo successivamente (due anni dopo) è da ritenersi “giudizialmente comprovato che ove durante il consulto, invece di proseguire nella terapia omeopatica, fosse stato consigliato alla paziente di sottoporsi all’exeresi e poi a cicli di radio o chemioterapia, ovvero all’innovativa terapia biomolecolare, l’aspettativa di vita della paziente sarebbe stata certamente più lunga e con sofferenze ben inferiori rispetto a quelle effettivamente patite”.

A prescindere da chi sia il titolare della relazione terapeutica con il paziente, un medico interpellato sulla cura e informato in prima persona dei risultati delle analisi cliniche, riveste una posizione di garanzia verso la persona malata. Specialmente nell’ambito di un consulto in cui è stato chiamato per esplicitare un parere professionale. La cooperazione colposa nella morte della paziente, quindi, è caratterizzata dalla condotta del collega invitato a cooperare sulla linea terapeutica e che a seguito di esame diretto sulla persona ammalata non si è attivato per impedire l’evento letale. Infatti, l’avallo dato al palese errore di un collega costituisce una violazione dei doveri professionali per il medico che non eserciti il proprio potere impeditivo a fronte di quella che è una denegata cura. L’omissione o il sostegno esplicito a non procedere all’asportazione di un tumore costituiscono il nesso causale tra la morte del paziente e la condotta del medico chiamato a consulto.

Elisabetta Soavi

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