Pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenta alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica. Nel testo che segue l’avvocato Soavi si occupa di un pronunciamento della Cassazione che ha confermato la condanna di un medico ritenuto responsabile per la mortedi un paziente evidenziando come il sapere scientifico sia fondamentale per il giudice nella valutazione di profili di responsabilità.

Non solo, viene ribadito il principio in materia di linee guida: parametri precostituiti cui il giudice si attiene per valutare profili di colpa nella condotta del medico, ma non vincolanti per l’operatore sanitario e dalle quale deve discostarsi quando ritiene che non siano adattabili al caso concreto.

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La Corte di Cassazione con una recente pronuncia ci ricorda il ruolo importante del sapere scientifico nel processo e delle linee guida, quali parametri che devono essere tenuti in considerazione dai giudici nella valutazione di eventuali profili di responsabilità penale in capo agli operatori sanitari. Con la sentenza in esame (Cass. Pen. Sez. IV, 24 settembre 2020 n. 28314) è stata confermata la condanna in secondo grado di un medico per il reato di cui all’art. 590 sexies c.p. (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), ritenuto responsabile della morte di un paziente affetto da patologia coronarica ostruttiva.

Dalla ricostruzione dei fatti è emerso che il paziente si era presentato in ospedale a causa di “forti dolori toracici dovuti a ischemia; la coronarografia aveva evidenziato l’esistenza di una grave ostruzione delle arterie; l’imputato aveva deciso di procedere ad angioplastica con apposizione di stent medicati; il paziente veniva dimesso con prescrizione di terapia a base di solo clopidogrel e non anche di acido acetilsalicilico, essendo nota l’allergia del soggetto a tale composto; il paziente veniva nuovamente colto da malori e decedeva a causa di un re-infarto, dovuto alla occlusione trombotica di uno degli stent applicati”. In particolare, il medico è stato ritenuto responsabile per aver sottoposto il paziente ad “angioplastica coronarica, dimettendolo con terapia a base di solo clopidogrel, invece di effettuare un intervento cardiochirurgico con applicazione di bypass, alla luce della patologia e delle condizioni generali del paziente, soggetto allergico all’acido acetilsalicilico che dopo l’intervento di angioplastica – non avrebbe potuto assumere la doppia terapia anti-aggregante a base di clopidogrel e aspirina”.

La Corte di Cassazione, in particolare, ha affermato che la valutazione del profilo di responsabilità penale in capo al medico imputato era stata provata nei giudizi di primo e secondo grado dalle evidenze scientifiche emerse durante il processo. Precisamente, viste le condizioni del paziente, l’unica soluzione praticabile era la rivascolarizzazione con applicazione di bypass che non avrebbe richiesto, nel post operatorio, la doppia terapia, a sua volta non praticabile nel caso concreto poiché il paziente era soggetto allergico a uno dei farmaci. Inoltre, il modulo del consenso informato era generico e il ricorso alla angioplastica era contrario alle linee guida che lo escludono per il caso di comprovata allergia ai farmaci; l’applicazione del bypass, viceversa, avrebbe consentito di evitare l’evento verificatosi, atteso che il rischio morte era in tal caso molto ridotto (pari al 1-2%), rispetto alla alta probabilità di complicanze trombotiche, dovute alla mancata assunzione dell’aspirina dopo l’applicazione di stent.

Nel giudizio di primo grado, le conclusioni del consulente della difesa del medico imputato aveva confermato che la causa della morte del paziente era stata la trombosi sub-acuta dello stent e così anche il perito nominato dal Giudice aveva affermato che “la dissezione della placca poteva avere al più incrementato il rischio trombotico, poiché il distacco della placca era fenomeno trombotico, reso più probabile proprio dalla applicazione dello stent”. Sempre dalle relazioni scientifiche, emergeva che “tale placca era stata schiacciata tra lo stent e la parete muscolare, cosicchè proprio l’azione del primo aveva determinato la dissezione, il punto del posizionamento avendo finito per rappresentare quello più vulnerabile, dal quale era partita la trombosi”. Sulla base di quanto sopra riportato, il caso in esame è stato oggetto di una ricca e approfondita analisi dal punto di vista scientifico nel procedimento penale a carico del medico imputato. La sentenza della Corte di Cassazione ha affermato quel principio ormai consolidato nella giurisprudenza secondo cui “il sapere scientifico all’interno del processo penale costituisce uno strumento al servizio dell’accertamento del fatto”. E’ stato altresì evidenziato che occorre comunque effettuare un vaglio sull’affidabilità dell’esperto che interviene nel processo e se quanto proposto da quest’ultimo trova comune accettazione nella comunità scientifica.

Per quanto riguarda l’aspetto della violazione o meno delle linee guida, il giudice di secondo grado aveva rilevato che la condotta del medico era connotata da particolare gravità, poiché le indicazioni scientifiche da seguire nel caso di specie erano chiare e in netto contrasto con la condotta in concreto tenuta dall’operatore sanitario. Veniva quindi richiamato il grado della colpa, ma la Corte di Cassazione ha affermato che, una volta accertata la violazione delle linee guida adeguate al caso concreto sul versante della responsabilità penale, la verifica del grado della colpa non assume rilevanza. Potrà, al contrario venire in considerazione ai fini del trattamento sanzionatorio e per la determinazione delle conseguenze civilistiche di tipo risarcitorio.

La giurisprudenza, inoltre, dopo l’entrata in vigore della Legge n. 24/2017 c.d. Legge Gelli Bianco, si è spesso interrogata sull’efficacia vincolante o meno delle linee guida nell’esercizio della professione sanitaria. Sul punto, la sentenza in esame, riprende il principio affermato dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sez. Unite 21 dicembre 2017 n. 8770), secondo cui “In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi dell’art. 5 della legge 8 marzo 2017, n. 24 – pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia – non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l’esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene”.

Non si dimentichi che legge del 2017 (c.d. Gelli Bianco) ha confermato la scelta che era già stata fatta dalla Legge c.d. “Balduzzi” del 2012 di formalizzare le linee guida, prevedendone una dettagliata disciplina (ad es. individuazione dei soggetti accreditati alla elaborazione di linee guida “certificate”). Ciò per attribuire alle linee guida determinatezza e conoscibilità, nonchè garantire la loro scientificità e una maggiore certezza nell’accertamento della responsabilità.

Elisabetta Soavi

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