Prende avvio con il contributo che pubblichiamo di seguito la collaborazione tra l’OMCeO Piacenza e l’avvocato Elisabetta Soavi, che commenterà alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica.
Un servizio che il Consiglio Direttivo ritiene possa essere di utilità per rispondere a domande e chiarire dubbi su un tema sempre molto delicato. Iscritta al foro di Piacenza, l’avvocato Soavi si occupa prevalentemente di diritto penale: nel suo primo contributo analizza la sentenza dell’8 gennaio 2019, con la quale è stata confermata la condanna a quattro mesi di reclusione per un medico di guardia che, nonostante la richiesta di intervento, non si era recato in un hotel per visitare alcuni turisti che si erano sentiti male.
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Una recente pronuncia della Corte di Cassazione stimola qualche spunto di riflessione sulla questione circa la sussistenza o meno di un obbligo del medico al servizio di continuità assistenziale presso un’AUSL, di adempiere alla richiesta d’intervento domiciliare. Il caso di cui si è occupata recentemente la Suprema Corte di Cassazione, Sez. VI con la sentenza n. 34535 dell’8 gennaio 2019 (dep. in data 29 luglio 2019) riguarda un medico di guardia che, contattato da un albergatore per effettuare una visita a sei turisti che alloggiavano presso la struttura, non aderiva a tale richiesta. In particolare, si trattava di sei ragazzini inglesi, di circa 10 anni, e due adulti che avevano accusato forti malesseri fisici con attacchi di vomito e dissenteria. In primo grado il Tribunale accertava una responsabilità penale per il comportamento omissivo del medico, in particolare condannava l’imputato per il reato di cui all’art. 328 c.p. (Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione), sentenza che, dopo l’impugnazione del sanitario veniva successivamente confermata dalla Corte d’Appello.
Gli organi giudicanti di entrambi i gradi di giudizio del merito, evidenziavano che il medico si era intrattenuto per più di 15 minuti al telefono con l’albergatore ponendo a volte domande già vanamente ripetute, esprimendo commenti ma senza mai accogliere l’invito di recarsi presso l’hotel per effettuare una visita ai ragazzi, nonostante fosse stato a lui chiaramente prospettata la situazione di quanto stava succedendo. L’albergatore, spazientito aveva quindi deciso di rivolgersi al servizio di emergenza del 118, intervenuto tempestivamente. La difesa del medico imputato, promuovendo ricorso per Cassazione, sottolineava che le domande poste al telefono erano finalizzate a verificare una preventiva diagnosi per stabilire se il suo intervento in hotel poteva essere indispensabile e che comunque, in un secondo momento, si era recato presso la struttura per constatare che erano già intervenuti gli operatori del 118. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado di condanna dell’imputato a quattro mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 328, 1 comma c.p.. I giudici di legittimità hanno posto l’accento in ordine ai limiti entro cui può essere invocata la discrezionalità tecnica del medico per valutare la necessità o meno di visitare il paziente in base ai sintomi riferiti.
La fattispecie di reato che viene in considerazione nel caso di specie è il rifiuto di atti d’ufficio punito all’art. 328 c.p. In particolare, al medico di guardia è stato contestato il primo comma della suddetta norma secondo cui: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”. Il rifiuto non rileva specificamente come attività ma solo in quanto si traduca nel mancato compimento dell’atto dovuto. La volontà di non adempiere si manifesta oggettivamente e consiste quando il pubblico ufficiale, tale deve essere considerato il medico di guardia, avuta coscienza della richiesta, omette di compiere tempestivamente l’atto che deve adempiere.
Diverse sono le ragioni che rendono doveroso l’adempimento: “per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità”. La norma di cui all’art. 328, 1° comma tutela infatti il buon andamento della P.A., sotto forma dell’interesse alla tempestività dell’azione pubblica in relazione a quei casi in cui un’azione pubblica celere sia imposta da ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e, come nel caso di specie, sanità. Differente è altresì il periodo di tempo entro il quale l’atto va compiuto che varia a seconda delle situazioni che si presentano, ed oltre il quale, pertanto, il suo compimento non potrebbe più dirsi tempestivo e quindi la condotta omissiva diviene penalmente rilevante. Nel caso di cui al 1° comma è incriminato il rifiuto di compiere un atto che, per le ragioni indicate, deve essere eseguito senza ritardo: si tratta di un termine elastico e il momento a partire dal quale assume rilevanza penale la mancata realizzazione dell’atto, va concretizzato caso per caso. Dal punto di vista dell’elemento soggettivo inoltre, occorre che il pubblico ufficiale sia consapevole della richiesta rivoltagli: in particolare deve essere accertato in capo all’agente la coscienza e volontà di omettere qualcosa che sa di dover adempiere rappresentandosi così un evento contra ius. E’ evidente, infatti, che se la causa del rifiuto sia da attribuire esclusivamente ad un errore diagnostico e, quindi, ad una colpa professionale del medico, non potrà configurarsi il dolo richiesto dalla norma incriminatrice.
Con particolare riferimento al caso trattato dalla sentenza in esame, viene in rilievo il problema della c.d. discrezionalità tecnica utilizzata dal medico per valutare la necessità o meno del suo intervento e quindi l’adesione alla richiesta proveniente dall’albergatore. La Corte di Cassazione in tale occasione ha affermato che “integra il delitto di rifiuto di atti d’ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che non aderisca alla richiesta di intervento domiciliare urgente nella persuasione a priori della enfatizzazione dei sintomi denunciati dal paziente, posto che l’esercizio del potere-dovere di valutare la necessità della visita sulla base della sintomatologia esposta, sicuramente spettante al professionista, è comunque sindacabile da parte del giudice al fine di accertare se esso non trasmodi nell’assunzione di deliberazioni ingiustificate ed arbitrarie, scollegate dai basilari elementi di ragionevolezza desumibili dal contesto storico del singolo episodio e dai protocolli sanitari applicabili”.
In conclusione, ai fini dell’integrazione del delitto di cui al primo comma dell’art. 328 c.p. occorre che si tratti di un atto il cui urgente compimento sia imposto da una situazione di pericolo per un interesse qualificato e prevalente (nel caso in esame viene in considerazione la tutela della salute di soggetti minorenni). Anche l’atto discrezionale assume il connotato di atto doveroso in seguito ad una valutazione da parte dell’agente, in relazione al contemperamento degli interessi in gioco. Nella sentenza in esame si sottolinea come la tutela del diritto alla salute e probabilmente anche dell’incolumità pubblica (si temeva potesse derivare un contagio ad altre persone della struttura alberghiera) dovevano prevalere e come le argomentazioni difensive nel ricorso di legittimità non sono state sufficienti a dimostrare la mancanza di colpevolezza dell’imputato. Si legge nella pronuncia in questione, riprendendo un passo della motivazione del giudice di secondo grado che il medico di guardia non aveva posto alcuna domanda specifica riguardante le condizioni dei bambini che avvertivano il malessere, pertanto “la pluralità dei soggetti indisposti, la giovane età, l’essere ospitati in Italia in assenza dei genitori e senza conoscere la lingua, dovevano imporre al medico di recarsi presso l’albergo per constatare di persona la presenza di patologie anche temporanee a carico dei giovani pazienti”. Anche la buona fede e quindi la convinzione dell’inesistenza di ragioni di urgenza che imponessero la visita domiciliare, come addotto dalla difesa, non hanno trovato accoglimento da parte della Suprema Corte. La sentenza ritiene implausibili tali argomentazioni in considerazione “del dato probatorio rinveniente nel tempestivo intervento del servizio del 118 (nella stessa situazione sottoposta al medico di turno) e del tentativo di rabberciare un supposto postumo sopralluogo non documentato (se non con una personale autocertificazione di intervento di fatto non effettuato)”. Dagli atti del processo risultava che nessuno l’aveva visto arrivare anche dopo l’intervento degli operatori del 118.
Occorre inoltre richiamare l’attenzione sulla disciplina dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica prevista dall’accordo collettivo nazionale. La sentenza in esame richiama al riguardo il primo comma dell’art. 13 del D.P.R. n. 41/1991 secondo cui “Il medico che effettua il servizio di guardia in forma attiva deve presentarsi, all’inizio del turno, presso la sede assegnatagli e rimanere a disposizione, fino alla fine del turno medesimo, per effettuare gli interventi domiciliari o a livello territoriale che gli saranno richiesti”, nonché il successivo terzo comma in base al quale “durante il turno di guardia il medico è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dall’utente, oppure – ove esista – dalla centrale operativa, entro la fine del turno cui è preposto”. Sulla base di quanto sopra affermato la Corte, in considerazione anche di tale disciplina specifica che regolamenta l’attività di continuità assistenziale ha affermato il principio secondo cui rimane saldo in capo al medico l’incombenza di valutare, sulla base di quanto riferitogli e di una preventiva diagnosi, la sussistenza della necessità o meno di recarsi a visitare il paziente. Ciò nondimeno, senza impedire che l’organo giudicante possa a sua volta effettuare una valutazione circa la correttezza dell’operato del sanitario, alla luce degli elementi acquisiti al processo.
Si possono segnalare altre pronunce che si sono occupate di casi analoghi adottando una soluzione talvolta differente. Secondo la Corte di Cassazione Penale, Sez. VI, sent. n. 28005 del 21/04/2011 “non sussiste il reato di cui agli artt. 328 e 593 c.p. di rifiuto ed omissione di atti di ufficio se il medico addetto al servizio di guardia medica ha omesso di prestare l’assistenza occorrente e le cure del caso (disinfettazione e sutura) ad un paziente che si era presentato con ferita lacera in sede frontale, esito di caduta. Egli infatti ha provveduto, dopo avere ottenuto il consenso del paziente, a chiamare il 118 e a farlo ricoverare in ospedale dove i sanitari hanno proceduto alla sutura della ferita”. Secondo altra sentenza della Suprema Corte “non risponde del delitto di omissione di atti d’ufficio il medico che, durante il turno di guardia medica, anziché recarsi di persona a visitare il paziente che denuncia problemi respiratori, si limiti a prescrivere, telefonicamente, la terapia del caso, essendo egli arbitro della scelta di effettuare o meno la visita domiciliare” (Cass. Pen. Sez. VI, sent. n. 10130 del 20/01/2015). Al contrario, “integra il reato di rifiuto di atti di ufficio, la condotta del medico di guardia in servizio presso una casa di cura che, richiesto di prestare il proprio intervento da personale infermieristico in relazione alla progressiva ingravescenza delle condizioni di salute di un paziente ivi ricoverato, ometta di procedere alla visita ed alla diretta valutazione della situazione, a nulla rilevando che il paziente sia comunque assistito dal suddetto personale, incaricato di monitorarne le condizioni fisiche e i parametri vitali, e che, in tal caso, la valutazione del sanitario si fondi soltanto su dati clinici e strumentali” (Cass. Pen. Sez. VI, sent. 30.3.2017, n. 21631).
Ancora, Cass. Pen. 27/11/1985 “In tema di reato di omissione di atto d’ufficio, il dolo può ritenersi escluso se il rifiuto a compiere l’atto stesso sia stato opposto in buona fede; ne consegue che non è ravvisabile la sussistenza del dolo nel fatto del medico convenzionato con una usl, il quale, invitato dai genitori di una bambina malata a visitarla, si sia fatto descrivere dagli stessi i sintomi che la paziente presentava e, dopo averli conosciuti, abbia ritenuto, sulla base della sua esperienza, di poter prescrivere una cura senza bisogno di recarsi subito sul posto, invitando, altresì la madre della minore a telefonargli in serata per riferirgli sull’andamento della malattia in modo da dargli la possibilità di disporre nuove prescrizioni ed eventualmente di effettuare, a seconda dell’andamento della malattia, quella visita domiciliare che, in virtù dell’art. 24 dell’accordo collettivo nazionale stipulato il 30 gennaio 1981, era facultato ad effettuare allorché fosse stato richiesto della sua opera entro le ore dodici del giorno successivo”.
La suddetta rassegna giurisprudenziale conferma che la discrezionalità operata dal medico nella valutazione della necessità di intervento può essere sindacata dal giudice e quindi condurre ad una pronuncia differente a seconda del caso che viene in questione.
Elisabetta Soavi