Pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenta alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica. Nel testo che segue l’avvocato Soavi, si occupa di un pronunciamento della Corte Suprema che ha confermato la condanna di un medico ospedaliero, operante in regime di attività di libero professionista intramuraria autorizzata presso il proprio studio privato, accusato di peculato per non aver corrisposto all’ente di appartenenza gli importi previsti, cioè il 25% delle somme incassate e non fatturate ad alcune pazienti.

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La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23792 del 10 marzo 2022 ha confermato la condanna per il reato di peculato di un medico dipendente di una struttura ospedaliera pubblica che, operante in regime di attività di libero professionista intramuraria (c.d. “intramoenia” allargata) e autorizzata presso il proprio studio privato, ha eseguito prestazioni sanitarie in uno studio diverso da quello oggetto dell’autorizzazione, omettendo di versare all’AUSL la quota dovuta sugli importi corrisposti dai pazienti, atteso che la disponibilità del denaro veniva acquisita in ragione dell’ufficio ricoperto.

Il caso, ha riguardato una ginecologa con funzioni dirigenziali, autorizzata dall’Asl di appartenenza allo svolgimento di attività di libero professionista intramuraria (cd. intramoenia allargata) presso il proprio studio privato. Tuttavia, in seguito a controlli è stato accertato che il medico negli anni 2010, 2011, 2012 aveva emesso solamente 39 fatture rispetto ad un numero di visite superiore. In particolare, la ginecologa, una volta ricevuti i compensi, non aveva corrisposto all’ente di appartenenza gli importi previsti, cioè il 25% delle somme incassate e non fatturate ad alcune pazienti. Inoltre, tutte le pazienti sentite come testimoni hanno riferito di essere state visitate dall’imputata in uno studio diverso rispetto a quello per il quale l’autorizzazione era stata rilasciata. La sentenza di condanna di primo grado ha altresì evidenziato che le visite mediche erano tutte eseguite in virtù di un contatto pubblico qualificato “atteso che era la Asl, a cui le donne a diverso titolo si erano rivolte per l’esecuzione di prestazioni sanitarie, ad affidare le pazienti alla cure della dottoressa”

Ciò premesso, per una migliore comprensione del fatto contestato al medico si ritiene opportuno riportare il testo della norma che punisce il reato di peculato. L’art. 314 c.p. dispone che “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”. La Cassazione con la sentenza in esame ha affermato che “ai fini della integrazione del delitto di peculato, il pubblico ufficiale, ovvero l’incaricato di pubblico servizio, deve appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all’esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l’appropriazione, dovendosi ritenere invece incompatibile con la presenza della ragione funzionale un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo intuitu personae, ovvero scaturito da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, cioè un affidamento senza alcuna relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta”.

Nel peculato, la rilevanza penale della condotta appropriativa del denaro o della cosa mobile altrui presuppone il possesso o comunque la disponibilità, nel senso appena indicato, di tali beni da parte del pubblico ufficiale “per ragione del suo ufficio o servizio”. Nel caso di specie i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che le “visite mediche furono eseguite in ragione di un titolo che trovava origine nel rapporto tra l’imputata e la Asl; un rapporto, un titolo, che condusse la Asl ad indirizzare le pazienti all’imputata e la circostanza che la prestazione fu eseguita in uno studio diverso rispetto a quello oggetto dell’autorizzazione non incide sul senso, sulla causa, sulla ragione giustificativa di quelle prestazioni, che furono eseguite non in un contesto evidentemente abusivo, ma trovavano la loro ragione giustificativa in un affidamento legittimo delle pazienti”.

Non vi è dubbio, conclude la Cassazione, che l’imputata conseguì la disponibilità del denaro in ragione dell’ufficio nonostante la violazione delle disposizioni organizzative ricevute.

Elisabetta Soavi

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