Pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenta alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica. Nel testo che segue l’avvocato Soavi si occupa di un recente pronunciamento della Corte Suprema che ha confermato la sentenza di assoluzione in primo grado per il legale rappresentante di una RSA per il reato di epidemia colposa.
La Cassazione ritiene che per l’integrazione di tale reato sia necessaria una condotta attiva, quindi commissiva; non è sufficiente l’aver omesso determinati comportamenti – nel caso specifico si contestava il mancato aggiornamento del documento di valutazione dei rischi – per contrastare la diffusione del virus.
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L’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Covid19 ha determinato tra le varie conseguenze, come più volte sottolineato in alcuni commenti precedenti, l’iscrizione di diversi procedimenti penali a carico di dirigenti di strutture ospedaliere e sociosanitarie. Tra i reati contestati, vengono in considerazione, non solo, l’omicidio colposo o le lesioni personali colpose ma anche quello di epidemia colposa.
Riguardo alla prima fattispecie penale ricordiamo che il D.L. n. 44/2021 ha introdotto all’art. 3 bis lo “scudo penale” per le ipotesi di reato di omicidio colposo o lesioni personali colpose se commessi con colpa lieve e nell’esercizio di una professione sanitaria che trovano causa nella situazione di emergenza. Non solo, l’art. 3 del medesimo decreto prevede che la punibilità è esclusa per i reati di agli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio colposo e lesioni personali colpose) quando “l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”. Pertanto, il reato di epidemia non è contemplato nel c.d. “scudo penale”.
Nonostante la mancata previsione dell’esclusione della punibilità per tale delitto, gli interpreti del diritto ed una recente pronuncia della Corte di Cassazione si sono espressi sulla possibilità di applicare il reato di epidemia nello scenario del Covid19. Di particolare interesse sono gli argomenti affrontati dai giudici della Cassazione con la prima sentenza che si è occupata del caso di un legale rappresentante di una RSA imputato per il reato di epidemia per il “focolaio” di Covid19 sorto in una struttura per anziani nella “prima ondata” dell’emergenza pandemica (Cass. Pen. Sez. IV, 24 maggio 2021 n. 20416). Quanto contestato al dirigente è l’omessa integrazione del documento di valutazione dei rischi con le procedure previste dal D.P.C.M. 24 aprile 2020 e l’omesso aggiornamento dello stesso.
Il Tribunale aveva assolto l’imputato perché il fatto non costituiva reato, in quanto il delitto di epidemia non sarebbe configurabile con una condotta omissiva. Sul punto, la Cassazione si è soffermata, con la sentenza in esame, sull’analisi della condotta tipica della fattispecie punita dall’art. 438 c.p. (Epidemia). In particolare, sulla possibilità di poter configurare ipotesi penalmente rilevanti di tipo omissivo e, in caso affermativo, quale dovrebbe essere la prova del nesso causale tra la mancata tenuta della condotta doverosa e l’evento dannoso (la diffusione del virus). La norma di cui all’art. 438 c.p. punisce chiunque “cagioni un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni” e secondo l’interpretazione della giurisprudenza, l’evento deve consistere nella “manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto di tempo in un dato territorio, colpendo un rilevante numero di persone”.
L’orientamento prevalente della Corte di Cassazione, ha affermato che il reato di epidemia è inquadrabile nei delitti commissivi a forma vincolata e quindi presuppongono che la condotta venga posta in essere con specifiche modalità. Con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 438 c.p., il fatto tipico consiste nella diffusione di germi patogeni, la condotta, pertanto, dovrà configurarsi in modo attivo e seguire una specifica modalità di realizzazione. Le vicende giudiziarie legate alla diffusione del Covid19, parrebbero, al contrario, evocare ipotesi reato omissivo a carico del personale sanitario per non aver impedito la diffusione del virus all’interno delle strutture. Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria, cui aderisce anche la sentenza della Corte di Cassazione in esame, afferma che per i reati a forma vincolata per i quali è richiesta ai fini della punibilità una particolare modalità di realizzazione (come ad esempio, il reato di epidemia), non può applicarsi il principio di cui all’art. 40 cpv c.p. secondo cui “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.
Nel caso di specie è pacifico che possa sussistere in capo al dirigente sanitario l’obbligo giuridico di impedire un evento epidemico nella struttura da lui gestita, tuttavia, la giurisprudenza più recente sostiene che la clausola di equivalenza di cui all’art. 40 cpv sopra citata, non possa applicarsi ai reati a forma vincolata. La Corte di Cassazione conclude, pertanto, che non è configurabile il reato omissivo di epidemia. Nella motivazione della sentenza in esame viene evidenziato come in siffatti casi, deve sempre procedersi ad un puntuale e rigoroso accertamento del nesso causale tra la condotta e l’evento.
Tale prova sarà fornita con il ricorso a leggi scientifiche e, come è stato evidenziato in altri commenti, appare evidente la difficoltà di tale accertamento se si considera la situazione emergenziale, l’incertezza scientifica (tutt’ora sussistente) della diffusione del virus, la scarsità di tamponi effettuati nei primi mesi e quindi, come conseguenza inevitabile, l’incertezza delle leggi scientifiche applicabili in tal caso. Se si considerassero anche le condotte omissive come rilevanti per l’integrazione del reato di epidemia, in tale contesto di incertezza la prova del nesso causale diventa ancora più difficoltosa. Oltre a dover dimostrare che la condotta doverosa omessa avrebbe evitato l’evento, si dovrà escludere che l’evento stesso non sia stato causato da altri fattori. Nel caso di specie, quindi, bisognerebbe dimostrare che la condotta doverosa omessa avrebbe evitato il contagio e nessun’altra causa ha determinato la diffusione del virus.
Infine, merita un cenno l’informativa della Procura Generale presso la Corte di Cassazione e indirizzata alle Procure della Repubblica sul territorio nazionale, che ha evidenziato la necessità da parte dell’Accusa di dover considerare le “conoscenze scientifiche progressivamente acquisite, in particolare relative alla malattia e alle possibilità organizzative e terapeutiche” al fine di capire se all’epoca poteva essere considerato come esigibile un comportamento organizzativo e terapeutico diverso, oltre a dover valutare il profilo temporale “essendo evidente che nella gestione dei primi casi i sanitari disponevano di un livello di conoscenza inferiore a quello acquisito successivamente”.
Elisabetta Soavi
CONTRIBUTI PRECEDENTI
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