Pubblichiamo un nuovo contributo dell’avvocato Elisabetta Soavi, che, nell’ambito della collaborazione avviata con l’OMCeO Piacenza, commenta alcune significative sentenze, in particolare della Corte di Cassazione, in tema di responsabilità medica. Nel testo che segue l’avvocato Soavi si occupa della responsabilità penale del medico competente: nello specifico, il caso riguarda un medico accusato di aver cagionato, per colpa, la morte del dipendente di una ditta.

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La sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. IV, sent. del 21 gennaio 2020 n. 19856) che si pone all’attenzione del lettore, ha escluso la responsabilità penale del medico competente imputato del reato di cui all’art 590 sexies c.p. per aver cagionato la morte del dipendente di un’azienda. I Giudici di primo grado avevano ritenuto accertata la condotta colposa del medico consistita in negligenza, imperizia ed imprudenza ed inosservanza delle regole che presiedono l’arte medica e in particolare: “per avere omesso, nel redigere i certificati di idoneità lavorativa del 12 dicembre 2012 e del 12 dicembre 2013, di effettuare un’adeguata valutazione dei risultati degli esami ematochimici del 18 dicembre 2012 e del 16 dicembre 2013 con specifico riferimento alle alterazioni della crasi ematica che presentava evidente leucopenia, lieve anemia, piastrinopenia, pancitopenia, linfocitosi con segnali di evidente peggioramento rispetto agli esami precedenti e per aver omesso qualunque informazione e comunicazione dell’esito degli esami sopraindicati al diretto interessato e al medico curante, determinando così un ritardo diagnostico della patologia (mielodisplasia) della quale il M. era affetto da almeno due anni compromettendo così le possibilità di intervento terapeutico che avrebbero potuto allungarne la durata della sopravvivenza e migliorare la qualità della vita”.

Anche la Corte d’Appello, seppur in parziale riforma della sentenza di primo grado e riducendo la pena comminata, confermava la responsabilità penale del medico competente. In pratica, secondo la ricostruzione dei fatti condotta dai Giudici, l’imputato aveva commesso un errore diagnostico, non si era attenuto alla corretta applicazione delle legis artis e una più scrupolosa attività di accertamenti sanitari avrebbe quantomeno “procrastinato l’esito infausto”.

Il caso posto all’esame della Corte di Cassazione ha comportato innanzitutto una fondamentale disamina dei compiti assegnati dalla legge al medico del lavoro. La normativa di riferimento è quella del Testo Unico sulla salute e sicurezza dei luoghi di lavoro (D.Lgs n. 81/2008) ove sono ben delineati i diversi ruoli di garanti della sicurezza sul lavoro, tra cui quello del medico competente, quale collaboratore dell’imprenditore ai fini della valutazione dei rischi e per effettuare la sorveglianza sanitaria. Il medico del lavoro è obbligato ad intervenire nei momenti più significativi di attuazione delle misure di sicurezza, in particolare l’art. 25 del D.Lgs n. 81 /2008 indica quali sono i compiti specifici. Come affermato dalla sentenza della Cassazione, essi possono suddividersi essenzialmente in tre categorie:

“a) i compiti c.d. professionali costituiti essenzialmente dal dovere di effettuare la sorveglianza sanitaria, ovvero l’insieme degli atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionale e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

b) i compiti c.d. collaborativi rappresentati dal dovere di cooperare con il datore di lavoro alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori ai rischi. La partecipazione del medico competente alla fase di valutazione dei rischi aziendali garantisce allo stesso un’approfondita conoscenza dell’organizzazione dei processi lavorativi e gli consente, conseguentemente, di fissare adeguate misure di prevenzione ed efficaci protocolli sanitari; nell’ambito di tale attività occorre un suo coinvolgimento, da parte del datore di lavoro, anche nella redazione del documento di valutazione dei rischi e nella agevole individuazione delle possibili cause di eventuali disturbi riferiti dal lavoratore;

c) i compiti c.d. informativi consistenti: – nel dovere primario di informare i lavoratori sul significato della sorveglianza sanitaria e, nel caso di esposizione ad agenti con effetti a lungo termine, sulla necessità di sottoporsi ad accertamenti sanitari anche dopo la cessazione dell’attività; – nel dovere di fornire, a richiesta, informazioni analoghe ai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori; – nel dovere di esprimere per iscritto, in occasione delle riunioni di cui all’art. 35 (riunioni periodiche, obbligatorie nelle aziende con più di 15 dipendenti aventi ad oggetto il tema della sicurezza), al datore di lavoro, ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria effettuata e fornisce indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico – fisica dei lavoratori”.

Di particolare importanza è l’attività di sorveglianza sanitaria disciplinata all’art. 41 del D.Lgs n. 81/2008. Trattasi di un insieme di prestazioni sanitarie effettuate nell’ambito di visite mediche da svolgersi con diverse cadenze temporali, tra cui: quella preventiva per constatare l’assenza di controindicazioni al tipo di lavoro del dipendente, quella periodica che di norma si esegue una volta all’anno, quella su richiesta del lavoratore e correlata a particolari rischi professionali o alle condizioni di salute, quella in occasione del cambio di mansione e quella indicata al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Le predette visite mediche comportano lo svolgimento di accurati accertamenti clinici, come la raccolta di anamnesi, l’espletamento di esame obiettivo, svolgimento di esami clinici e biologici; inoltre, tali prestazioni variano in base al tipo di attività lavorativa e ai rischi ad esse connessi. Infine, la violazione delle attribuzioni e funzioni del medico competente così come dettagliatamente indicate nella disciplina del Testo Unico (oltre a protocolli e leggi specifiche connesse al diverso tipo di attività lavorativa che viene in considerazione) comportano l’irrogazione di sanzioni amministrative e penali. Non solo. Rimane ferma la responsabilità penale per i danni cagionati alla salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, qualora l’evento lesivo sia riconducile alla condotta colposa del medico competente, in quanto titolare di un’autonoma posizione di garanzia.

Nel caso di specie, dalla ricostruzione dei fatti è emerso che il medico imputato aveva provveduto a consegnare gli esiti delle analisi cliniche, tra cui gli esami ematologici, al lavoratore indicandogli, tra l’altro, di recarsi dal medico curante per approfondire la diagnosi ma quest’ultimo non vi aveva provveduto. In primo luogo la Corte di Cassazione ha rilevato che non sussiste in capo al medico competente alcun obbligo di interlocuzione diretta con il medico curante del lavoratore. Nel prosieguo della motivazione della sentenza in esame, i Giudici hanno esaminato la questione concernente la sussistenza o meno del nesso causale tra la condotta colposa omissiva del medico e la morte del lavoratore. Ai fini del rimprovero per colpa al soggetto imputato occorre verificare, secondo un giudizio ex ante, se il verificarsi dell’evento lesivo (nel caso in questione, la morte del lavoratore) poteva essere previsto. Ripotandosi al momento in cui la condotta è stata tenuta o omessa bisogna avere riguardo alla potenziale idoneità della stessa a cagionare l’evento di danno. Tale valutazione viene svolta con il paramento dell’agente modello, uomo coscienzioso che svolge la stessa professione nelle medesime circostanza concrete in cui ha operato il soggetto imputato. Non solo, è necessario altresì effettuare un ulteriore giudizio controfattuale per accertare se, in caso di una condotta alternativa lecita, l’evento si sarebbe comunque verificato.

La Corte di Cassazione, nel caso in esame, ha aderito ai principi ormai consolidati in giurisprudenza e ha affermato che “nelle ipotesi di omicidio o di lesioni colpose in campo medico, il ragionamento contro – fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, deve essere svolto dal giudice tenendo conto della specifica attività che sia stata specificamente richiesta al sanitario (diagnostica, terapeutica, di vigilanza o di controllo) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con altro grado di credibilità razionale”. Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra la condotta omissiva tenuta dal medico e il decesso del paziente allorquando risulti accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore, rallentando significativamente il decorso della malattia, o con minore intensità lesiva”.

In applicazione di tali corollari, i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto la motivazione della sentenza di condanna del Tribunale e della Corte d’Appello illogica, congetturale e inconferente. In applicazione dei principi sopra esposti, non è stato provato il nesso causale tra la condotta del medico competente nell’esecuzione delle prestazioni mediche e la morte del lavoratore e quindi non è possibile affermare la responsabilità per colpa.

Elisabetta Soavi

CONTRIBUTI PRECEDENTI

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